lunedì 26 aprile 2010

Peiró, quando l'Inter furoreggiava in semifinale



Sartiburgnichfacchetti, Bedinguarneripicchi, Jairmazzolapeirósuarezcorso. La Grande Inter. Catenaccio, gol, lanci lunghi, contropiede e foglie morte. E astuzia, perché senza non si va da nessuna parte. A maggior ragione in finale di Coppa dei Campioni dopo un 3-1 subìto lontano dalle mura amiche. Furbone di turno, Joaquín Peiró: sangue colchonero, cuore grande e materia grigia abbondante. È lui a garantire all'Inter un posto nella finale, disputata sull'erba (e sotto la pioggia) amica di San Siro il 27 maggio 1965.
Tutto ebbe inizio con una monetina, un perfido testa o croce che estromise il Colonia dalla competizione regalando al Liverpool la semifinale: doppio 0-0 e 2-2 nello spareggio, a quell'epoca la qualificazione si decideva così. E allora c'è Anfield, e c'è Sarti che per tre volte è costretto a raccogliere il pallone in fondo al sacco: Hunt, Callaghan e St. John, meno male che c'è Peiró, abile nello sfruttare una disattenzione difensiva del Liverpool per servire a Mazzola il comodo pallone del provvisorio 1-1. Il risultato è comunque pesantissimo, un'eliminazione già scritta, anche per l'allenatore del Liverpool Bill Shankly: «Signor Herrera, come gioca questo Benfica?», domanda al Mago al termine dell'incontro, considerandosi già a San Siro, e non certo per il ritorno della semifinale. HH, ribollente di rabbia, negli otto giorni che inframezzano le due sfide non perde occasione per caricare i suoi uomini: li porta in ritiro, ci parla e conclude ogni singola chiacchierata affermando cocciutamente: «Per questi motivi tu sei più forte e perciò vinceremo».
Dopo un simile lavaggio del cervello, i nerazzurri scendono in campo con gli occhi iniettati di sangue. Corso, a distanza di anni, ricorda così quella notte indimenticabile: «Quando entrammo in campo c'era un muro di entusiasmo. Venne organizzata una fiaccolata: potevo distinguere le fiammelle degli accendini, dei giornali, i puntini luminosi delle sigarette. Ancora oggi mi si accappona la pelle». Ed è proprio lui, Mario Corso, il piede sinistro di Dio, a sbloccare il risultato dopo appena otto minuti: una foglia morta va a depositarsi in rete, il goalkeeper Lawrence è impietrito. Passa un minuto, e Mazzola lancia Peirò in profondità. Lawrence, the Flying Pig («il maiale volante»: 89 kg, un'esagerazione a quell'epoca) agguanta il pallone in sicurezza, premurandosi di stendere Peiró con una spallata. Lo spagnolo, schiumante di rabbia, si rialza, attende che lo scozzese faccia due palleggi e, al terzo, gli sottrae la palla con il mancino e la infila in rete con il destro. Due a zero, ed il cronometro dice che siamo solo al nono minuto del primo tempo. San Siro è una bolgia, Facchetti un attaccante: al 57' il Cipe chiude i conti, in finale contro il Benfica ci va la truppa di Habla Habla, Helenio Herrera. Una paperissima del portiere benfiquense Costa Pereira, favorita dalla torrenziale - e provvidenziale - pioggia abbattutasi su San Siro, regala all'Inter la seconda Coppa dei Campioni consecutiva e con essa un biglietto aereo per Buenos Aires: in Coppa Intercontinentale gli avversari sono ancora los Diablos Rojos dell'Independiente. La trasferta argentina finisce col rivelarsi una pericolosa formalità: il 3-0 di San Siro ipoteca il successo. La rete del vantaggio, manco a dirlo, porta la firma proprio di Peiró, mentre a chiudere i conti ci penserà il suo compagno di bevute Mazzola: «Cervesiña?» («birretta?») chiedeva Joaquín a Sandro, e i due fuggivano dal ritiro per godersi l'acre sapore del luppolo.
Quel gol all'Independiente sarà l'ultimo acuto di Peiró in nerazzurro. Prima del rimpatrio all'Atletico Madrid, un ultimo scorcio di gloria italiana con la Roma, e poi gli scarpini appesi ad un chiodo biancorosso. Ma con uno spicchio di cuore sempre tinto di nerazzurro.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

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