venerdì 27 agosto 2010

E ora dove vola la Quaglia? Ecco tutte le alternative tattiche a disposizione di Del Neri



Rafalution, un bel sogno. Quando in campo Inter e Roma ancora si davano battaglia per uno scudetto poi tintosi di nerazzurro, la stragrande maggioranza della tifoseria juventina sognava il rivoluzionario Benitez ed i suoi prodi Torres e Mascherano. Poi, tre giorni dopo il triplice fischio finale che andava a sancire la fine del campionato, in Corso Galileo Ferraris 32 si sono presentati Gigi Delneri e Beppe Marotta. E via con la rivoluzione, l'italianissima rivoluzione. Pepe, Bonucci, Storari, Motta e Lanzafame vestiti di bianconero in un battibaleno, con l'uruguagio (ma di passaporto spagnolo) Martinez a fargli compagnia. Gli acquisti di Aquilani e Krasic, poi, parevano l'ideale complemento di un mercato florido in entrata ma ancora taciturno alla voce cessioni. E così Marotta ha pensato bene di rimboccarsi le maniche per regalare al popolo juventino una fine d'agosto al cardiopalmo. La cessione di Diego al Wolfsburg, ingenerosa dopo un ottimo precampionato, è figlia della sua difficile collocazione tattica: il dogmatico 4-4-2 delneriano non prevede trequartista, anche se un'eccezione per Doni era stata fatta, e con risultati lusinghieri (21 gol in due stagioni). Assieme al fantasista brasiliano, ha preso la porta anche Trezeguet: dopo dieci anni e 171 gol con la Juventus, il francoargentino si è sentito in dovere di assecondare sua moglie Beatrice, nativa di Alicante e smaniosa di veder indossare al marito il biancoblu dell'Hércules neopromosso nella Liga. Ed a fargli compagnia in Costa Blanca potrebbe esserci Camoranesi, anch'egli tentato da un'offerta dei blanquiazules. Ceduti due pilastri del reparto offensivo, Marotta è dovuto correre ai ripari in fretta. Forse anche troppa. Dopo lo scottante «no» ricevuto da Totò Di Natale, restio ad abbandonare Udine, il Direttore Generale juventino ha virato su Quagliarella, che non avuto remore nell'accettare la corte della Vecchia Signora, anteponendo la ragione ai sentimenti.
L'approdo dello scugnizzo di Castellammare di Stabia alla Juventus rimescola le carte dell'attacco bianconero. La sua polivalenza (seconda punta, ma anche centravanti ed esterno) rappresenta per Delneri un'importante variabile tattica, da sfruttare sin da subito: complice l'infortunio rimediato da Amauri in Europa League, l'esordio di Quagliarella potrebbe arrivare già domenica contro il Bari. La sua collocazione nello scacchiere tattico juventino rappresenta però un rebus per solutori più che abili. Centravanti con Del Piero come spalla, oppure seconda punta con Del Piero alle spalle (nelle gerarchie del tecnico)? E se lo si provasse ad imbastardire, stile Martinez, obbligandolo ad un lavoraccio in copertura nelle vesti di esterno di centrocampo non si sbalordirebbe nessuno.
Liberiamoci quindi delle redini, e lasciamo galoppare liberamente la fantasia. L'ipotesi più plausibile, quella di un Quagliarella in veste di sostituto dell'attempato Del Piero, consentirebbe al ventidue volte azzurro di agire in appoggio ad un centravanti fisico come Amauri, un po' come accaduto nell'ultima stagione a Napoli con Denis. E se invece dovesse vestirli lui, i panni del centravanti? Semplice, visto che al giocando al centro dell'attacco udinese ha messo a segno 33 gol (25 in campionato, 8 in Coppa UEFA) nel bienno trascorso in Friuli. Intrigante l'ipotesi di accoppiata con un altro ex giocatore dell'Udinese, Iaquinta: fisicamente differenti, ma tatticamente simili, essendo entrambi in grado di ricoprire indifferentemente entrambi i ruoli d'attacco previsti dal 4-4-2; in questo caso, sarebbe più probabile l'impiego di Iaquinta come prima punta, con Quagliarella a fargli da spalla. Ultima ipotesi, da riservare magari alle imprese disperate, quella che prevede Quagliarella esterno sinistro a centrocampo con licenza d'inserimento offensivo, per giocarsi il tutto per tutto quando non c'è più niente da perdere.

Antonio Giusto

Fonte: Goal.com

mercoledì 25 agosto 2010

Delusione italiana

La delusione di Cassano. Ansa

E pensare che la scorsa stagione s'era conclusa così bene. Inter e Roma s'erano rese protagoniste di un finale di campionato avvincente come non si vedeva da anni, denso di emozioni e impreziosito da sorpassi e controsorpassi. La stessa Inter, guidata dal rimpianto José Mourinho, s'issava in vetta all'Europa sei giorni dopo essersi cucita sul petto il tricolore per quinta volta filata, consentendo all'Italia di mantenere i quattro - vitali - posti in Champions League anche per la stagione a venire. Poi il buio. L'ItaLippi, umiliante e umiliata, un mercato afono alla voce acquisti ma assai loquace per quanto concerne le cessioni: Balotelli ha già fatto le valigie, Diego lo emulerà presto. In entrata? Il nulla, o quasi: eccezion fatta per la consueta rivoluzione estiva del Genoa (molti acquisti, ma altrettante cessioni) da segnalare appena l'imberbe prodigio Coutinho ed il puledro Krasic. Forse arriverà Ibrahimovic, ma sarà davvero troppo poco. E la recente eliminazione patita dalla Sampdoria, che ci costa un provvisorio distacco di 5,1 punti dai tedeschi nel ranking UEFA e quindi una squadra in Champions League, è un boccone troppo amaro.
Mi spiace, ma la voglia di redigere la consueta presentazione del campionato che va ad iniziare è svanita, proprio come il sogno di Pazzini, Cassano ed i trentamila di Marassi.

lunedì 23 agosto 2010

La leggenda del Meazza



Nasce cent'anni fa Giuseppe Meazza, il 23 agosto 1910. I primi calci li dà ad un palla di stracci, inseguita nel natio quartiere di Porta Vittoria sognando un futuro migliore: morto in guerra il padre, litografo caduto sul Carso, tocca a sua mamma Ersilia tirarlo su con quel po' che riesce a guadagnare facendo la verduraia. Peppino - così lo chiaman tutti - ha il pallone sempre in testa, nel vero senso della parola: frequenta il Trotter, e torna da scuola palleggiando contro il muro per anche duecento metri filati utilizzando unicamente il capo.
Con gli amici mette su una prima squadretta, la Costanza, con sede in via Arconati. Entra poi a far parte dei Maestri Campionesi, ed a 12 anni compiuti, previo consenso della signora Ersilia, inizia finalmente a giocare sui campi regolari con i ragazzi uliciani del Gloria F.C. È qui che un ammiratore, ammaliato dalle sue doti di centromediano, gli regala le tanto agognate scarpette da calcio, ed è sempre qui che Fulvio Bernardini lo nota: uno così bravo, il «dottore» (per via di una laurea in scienze economiche conseguita alla Bocconi) pensa di doverlo presentare all'allenatore della prima squadra, Arpad Weisz. Detto, fatto: Meazza, a 14 anni, entra a far parte delle giovanili nerazzurre.

È NATA UNA STELLA
La vita del Peppino, grama sino a pochi istanti prima, tingendosi di nerazzurro cambia completamente: in campo si ritrova a fare il centrattacco, perché è lì che l'Inter ha bisogno, quindi lascia la fabbrica di cinture dello zio per dedicarsi anima e corpo al pallone, incoraggiato dai sciuri che compongono l'organigramma societario, i quali mai negano una bistecca a quel mucchietto d'ossa dai piedi prodigiosi. Assaggia la prima squadra appena diciassettenne, a Como, segnando tre dei sei gol (a uno) con cui l'Inter schianta l'U.S. Milanese in Coppa Volta. Prima dell'incontro, quando Weisz informa i suoi che Meazza sarà il centravanti, Poldo Conti esclama sarcastico: «Oh, bene, adesso facciamo giocare i balilla!», alludendo alla neonata Opera Nazionale Balilla, che raccoglieva tutti i bambini tra gli 8 ed i 14 anni. La strabiliante prestazione di Meazza, cui quel soprannome resterà incollato a vita, non lascia dubbi: è nata una stella.

ESORDI REGALI
Questo imberbe prodigio del fòlber già incanta l'Arena a suon di dribbling e colpi di tacco. L'esordio in campionato, il 25 settembre 1927, viene anch'esso bagnato da un gol: Peppìn mette la firma nel 6-1 contro La Dominante Genova. Quella di segnare all'esordio, per Meazza, è una piacevole consuetudine che accomuna gli esordi in campionato e prima squadra ai derby - meneghini e d'Italia, come li definirà Brera anni più tardi -, recanti il nome del «Balilla» nel tabellino dei marcatori: in gol al Milan nella prima stracittadina giovanile, stessa solfa (il 30 aprile '28) alla prima volta tra i grandi, ed un gol come regalo d'onomastico il 19 marzo del 1930 al debutto contro la Juventus di Combi, Rosetta e Caligaris. Quest'Inter-Juventus viene consentito dall'unificazione del campionato, avvenuta nel 1929 per volere del presidente della FIGC Arpinati. Ed il primo scudetto del girone unico lo vince proprio l'Inter, trascinata dai 31 gol in 33 partite di un Meazza neppure ventenne ma già decisivo: delle trentatré marcature, le più importanti sono quelle che consentono all'Inter - anzi, all'Ambrosiana: al regime fascista il nome Internazionale pare troppo esotico - di agguantare il pareggio contro il Genoa in una partita cruciale per l'assegnazione del titolo. Alla terzultima di campionato, i rossoblu sono di scena in via Goldoni per la partita che deciderà il destino del campionato: all'Inter basta un pareggio, ma dopo 45' il Genoa conduce 3-1. Lì si scatena il finimondo, con le tribune che cedono e 180 feriti portata via in fretta e furia per consentire la ripresa dell'incontro, cconclusosi sul 3-3 grazie ad una tripletta di Meazza. Ma non è certo questo l'unico exploit stagionale del fenomeno di Porta Vittoria: contro la Roma, capitanata dal suo scopritore Bernardini, segna tre gol nei primi quattro minuti spianando la strada ai suoi verso il 6-0 finale.

AZZURRO FULGIDO
Simili prestazioni non passano di certo inosservate, tanto che il selezionatore della Nazionale, Vittorio Pozzo, lo veste d'azzurro per la prima volta il 9 febbraio di quell'anno contro la Svizzera. Si tratta di una semplice amichevole, ma il pubblico partenopeo giunto a Roma per assistere all'evento storce il naso a causa della presenza in campo di quel ragazzino: invocano il loro beniamino Attila Sallustro, ricoprendo di fischi Meazza, e mamma Ersilia scoppia in lacrime. A consolarla ci pensa il suo bambino, che segna una doppietta - si tratta di un esordio, no? - e regala il successo all'Italia. Poco tempo più tardi, sempre con indosso la maglia della Nazionale, si presenta a Budapest e rifila tre gol all'Ungheria, annichilita 5-0 nonostante si tratti di una delle maggiori potenze calcistiche del tempo. Il «Balilla», che segna caterve di gol con l'Inter, quando è agli ordini di Pozzo dà sempre motivo allo spettatore di stropicciarsi gli occhi: contro l'Austria, ad esempio, s'inventa uno stop di suola che porta due difensori allo scontro e gli spiana la strada verso il gol. In Inghilterra, al cospetto dell'ingombrante superbia di coloro che si professano maestri del football, sfodera quella che a detta dei testimoni è la sua miglior partita: sotto 3-0 dopo 15' ed in inferiorità numerica a causa dell'infortunio di Monti, l'Italia rischia un tracollo che Meazza evita segnando due gol e sfiorando ripetutamente il terzo in quella che verrà ricordata come «La Battaglia di Highbury».

DALLA FAME ALLA FAMA
La fame e le scarpe bucate sono ormai un pallido ricordo per il Peppino, che adesso è il re di Milano: guida la sua Lancia Lambda, abita in un lussuoso appartamento in piazza Cairoli, e tra una pubblicità ed una delle sessanta sigarette giornaliere si fa lustrar le scarpe per apparire ancor più bello agli occhi delle sue ammiratrici, con cui condivide il letto ogni notte senza che la classifica cannonieri ne risenta. Emblematico, in proposito, un episodio legato ad Inter-Juventus del novembre 1937. Meazza rischia di non giocare perché... disperso: scovato da un massaggiatore mentre dorme profondamente in un casino alle due del pomeriggio, esausto dopo una notte di fuoco, viene caricato in fretta e furia sull'automobile e portato all'Arena, dove segna una doppietta decisiva per l'esito della partita (terminata 2-1) e dello scudetto, vinto dall'Inter con due punti di vantaggio proprio sulla Juventus.
La carriera di Meazza va a gonfie vele, ma tutt'a un tratto gli si «gela» il piede sinistro: la vasocontrizione di un'arteria non permette il regolare afflusso di sangue all'arto. I medici cercano di restituirlo al mondo del pallone con terapie innovative, ma dopo che il Peppino si è perso interamente la stagione 1939-40 (culminata con il successo dell'Inter in campionato) la decisione di operarsi viene spontanea: lui ha bisogno del calcio, ed il calcio ha bisogno di lui. Non l'Inter, però, che lo cede gratuitamente ai cugini rossoneri sul finire del novembre 1940.

IO, VAGABONDO...
Con la maglia del Milano, denominazione assunta dal Milan sotto la dittatura fascista, Meazza è costretto a giocare da interno. Questa sgradita posizione non gli impedisce di segnare un gol contro la sua tanto amata Inter all'Arena di via Goldoni, per tanti anni teatro delle sue imprese, abbandonata con le lacrime agli occhi nel momento del passaggio al Milan. C'è poi la Juventus, con cui firma il contratto sdraiato sull'erba del Comunale durante un allenamento con già indosso la tenuta bianconera, ma a Torino resta solo un anno: veste le maglie di Varese e Atalanta in tempo di guerra, poi torna all'Inter perché c'è bisogno di lui. La situazione è delicatissima, i nerazzurri rischiano di retrocedere in B: Meazza non può permetterlo, e così nella doppia veste di allenatore-giocatore scende in campo, e segna contro il Bari un gol decisivo. Non si tratta né dei celeberrimi gol «a invito» né di una qualche altra prodezza, ma è l'atto estremo d'amore nei confronti dell'Inter, e durante i festeggiamenti al Peppino tornano in mente i tempi in cui lo chiamavano «Balilla» e per le strade di Milano si parafrasava Leopardi cantando: «La donzelletta vien dalla campagna / leggendo la Gazzetta dello Sport / e come ogni ragazza lei va pazza per Meazza / che fa reti a tempo di fox-trot».



SAN SIRO, LA CASA DI PEPPINO
Morto a Rapallo il 21 agosto del '79, due giorni prima del suo settantesimo compleanno, Meazza riposa al Famedio del Cimitero Monumentale di Milano assieme ad illustri personaggi della storia meneghina quali Manzoni ed il più calcistico Candido Cannavò. Fermato dal più rude dei terzini, un tumore al pancreas, alla sua memoria viene intotolato San Siro, divenuto «Giuseppe Meazza» il 2 marzo 1980. Curiosamente, il Peppino non aveva praticamente mai giocato nello stadio edificato a partite dal dicembre 1925 dall'allora presidente milanista Piero Pirelli ed inaugurato da una stracittadina, conclusasi sul punteggio di 6-3 per l'Inter: qualche derby appena, e gli incontri casalinghi nel biennio rossonero, perché la casa di Meazza era l'Arena Civica di via Goldoni. E quando l'Inter si traferì a San Siro, nel 1947, il signore del fòlber milanese aveva appena appeso gli scarpini al chiodo.



L'UOMO DEI RECORD AZZURRI
Per la causa azzurra, cui contribuì segnando 33 gol (un record, rimasto imbattuto per oltre trentacinque anni) in 53 partite, Meazza non si tirò mai indietro. Formidabile centravanti, per la Nazionale il Peppino si sacrificò due volte, giocando da interno entrambi i Mondiali vinti per lasciar spazio a Schiavio prima e Piola poi nel tanto amato ruolo di centrattacco. Relativo al primo successo iridato un aneddoto concernente la passione per il gioco d'azzardo del campione milanese, capace di perdere la bellezza di 25 mila lire giocando a poker nel ritiro di Roveta, salvo poi rifarsi con il premio per la vittoria dei Mondiali, equivalente proprio a 25 mila lire. Al Campionato del Mondo di Francia, disputato nel 1938, è invece legato uno degli episodi che meglio spiegano la tempra di Meazza. Nella semifinale contro lo spocchioso Brasile (che aveva già prenotato i biglietti aerei per Parigi, dove si sarebbe disputata la finale) calciò il penalty decisivo reggendosi i calzoni con la mano sinistra e beffando il pararigori Walter: poteva mai un ragazzo divenuto orfano di padre ad appena sette anni ed in grado di superare la fame e la povertà farsi fermare un elastico rotto? No di certo, ed il secondo titolo mondiale era il giusto premio. Meno dolce l'addio alla Nazionale, causato dal «piede gelato» che non consentirà più a Meazza di vestire l'azzurro: recandosi ad Helsinki per un'amichevole con la Finlandia nel luglio del 1939, giurò di aver udito le cannonate della guerra, appena incominciata, mentre in treno costeggiava Danzica.



L'EREDE
Una volta dato l'addio al calcio giocato, Meazza cercò vanamente fortuna come allenatore: prima il Beşiktaş, in Turchia, poi la Pro Patria, quindi un biennio in Nazionale al fianco di Carlino Beretta. La guida tecnica, però, non faceva per il Peppino, che ben presto scelse di dedicarsi ai giovani per conto dell'Inter. A lui il merito di aver scoperto Sandro Mazzola, cui lo accomunavano la perdita del padre in giovanissima età ed una classe fuori dal comune. Il figlio del grande Valentino lo ricorda così: «Era una persona eccezionale, per cui la correttezza veniva prima di tutto. Una volta, mi lamentai perché non mi veniva passata la palla, e lui mi rimproverò dicendo che, nonostante avesse vinto due volte il Campionato del Mondo, mai si era permesso di crtiticare l'operato dei propri compagni di squadra. Quella fu, per me, un'importantissima lezione».

Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

martedì 17 agosto 2010

La prima volta non si scorda mai

Andrés Iniesta  fue elegido el mejor jugador de la final Foto: EFE

Ha vinto la Spagna, non il tiqui-taca. Pluricelebrata filosofia di gioco iberica, il calcio drogato di passaggi ed in costante astinenza dal tiro in porta ha preferito tenersi alla larga dal rumoroso Sudafrica delle vuvuzelas. Stretta nelle proprie, elaboratissime trame come nelle spire di un serpente, la selezione iberica ha visto il proprio castello, poi rivelatosi solidissimo, venire sgretolato dal pragmatismo di Hitzfeld. L'esordio mondiale, accompagnato dagli auspici di bissare il successo europeo, ha sbattuto in faccia alle Furie Rosse la crudele verità: non di solo tiqui-taca vive l'uomo. Un'ordinata ripartizione dello spazio difensivo, tanto è bastato alla Svizzera per aver ragione gli avversari, sperduti sulla trequarti alla ricerca di un varco mai apertosi. È qui che la Spagna ha acquisito la mentalità poi rivelatasi decisiva per alzare al cielo la Coppa del Mondo: abolizione del tiqui-taca, rivisto parzialmente solo in semifinale, ed estrema fiducia riposta nel cinismo di Villa, propiziato dalla genialità del duo blaugrana composto da Xavi ed Iniesta. Da sottolineare anche l'ostinata ma efficace riproposizione del doble pivote, a tratti deleterio per la manovra offensiva ma determinante in fase di non possesso (due appena i gol subiti dalla Spagna). Archiviata senza patemi la formalità honduregna, per aver ragione del Cile è stato fondamentale l'apporto dei già citati prodigi offensivi: Villa prima ed Iniesta poi hanno fatto ammattire il loco Bielsa. Con l'approdo agli ottavi, messo addirittura in discussione dai più pessimisti dopo il disastroso esordio, si è toccato l'apice della praticità: Portogallo, Paraguay, Germania ed Olanda sono stati accomunati nella cattiva sorte da un risultato, l'1-0, cui i cultori del passaggio sono poco abituati ma dinanzi al quale non hanno certo storto il naso. A conti fatti, più del bel gioco sono stati importanti la compattezza del gruppo e la solidità difensiva.

IMPRONTA CATALANA
Il capitano è Iker Casillas, madrileno di Móstoles, ma l'ossatura della squadra è fortemente legata alla Catalogna. Degli otto elementi in forza al Barcellona, ben cinque sono catalani purosangue (Puyol, Xavi, Piqué, Valdés e Busquets), mentre il manchego Iniesta ed il canario Pedro sono stati svezzati a La Masia, proprio come Cesc Fàbregas. Discorso a parte per Pepe Reina, nato a Madrid dove suo padre Miguel aveva concluso la carriera nell'Atletico, è anch'egli cresciuto calcisticamente nel Barça tanto da venir convocato per la Selecció Catalana. Sul Montjuïc si è invece formato Capdevila, prodotto della cantera dell'Espanyol. Questa forte identificazione catalana, tuttavia, non ha affato minato gli equilibri dello spogliatoio, anzi ha addirittura reso più solidi i legami tra i componenti della squadra: giocando a pocha e ballando sulle note di Waka Waka, facendo baldoria nella camera di Capdevila incitati dal dj Sergio Ramos, il gruppo ha raggiunto una coesione tale da superare ogni avversità.

VAMOS A GANAR
Una final no se juega, una final se gana. Una finale non si gioca, una finale si vince. Con questo spirito la Spagna tutta, non solo gli undici prescelti da Del Bosque, è idealmente scesa in campo al Soccer City Stadium di Soweto, sobborgo di Johannesburg assurto a centro del mondo per 120 minuti più recupero nella notte dell'11 luglio. Ad attendere le Furie Rosse, un'Olanda smaniosa di portare a casa la prima Coppa del Mondo. Sneijder e Robben, gli spauracchi olandesi desiderosi di vendetta: la Spagna, nella persona di Florentino Pérez, non ha creduto in loro, e la possibilità di completare un'opera di riscatto iniziata nella finale madrilena di Champions League è davvero invitante. Ma in una partita che sa di Kung-Fu a tenere inchiodato il punteggio sullo 0-0 è Casillas: fenomenale nel negare a Robben la gioia del gol in ben due occasioni, il capitano della Spagna tiene caparbiamente a galla i suoi, che si permettono il lusso di sciupare fior di occasioni dinanzi all'imponente Stekelenburg. Terminati in pareggio i tempi regolamentari, non resta che prolungare la partita di mezz'ora. E mentre van Bronckhorst dà fondo alle ultime energie di una lunga ed onorata carriera, i CT rimescolano le rispettive carte: Fàbregas e van der Vaart svestono la tuta, perché c'è bisogno di fantasia. E di gol: dentro Torres, fuori l'esausto Villa, e proprio i due subentrati confezionano la segnatura di Iniesta. È glaciale, il pallido prodotto della cantera blaugrana, nel trafiggere Stekelenburg e regalare al suo popolo la prima gioia Mondiale in quasi novant'anni di Nazionale spagnola. Commovente l'esultanza, una dedica al compianto Dani Jarque.

I VENTITRÉ
I Campioni del Mondo, così verranno per sempre ricordati. A Madrid come a Barcellona, a Valencia come a Siviglia, a Palma di Maiorca come a Bilbao, echeggerano per sempre le gesta della Nazionale di calcio spagnola più forte di ogni epoca. Guidati da un condottiero navigato e pacioso come Del Bosque, i componenti delle Furie Rosse si sono guadagnati l'immortalità calcistica. Il capitano della squadra, Iker Casillas, ha dimostrato di essere un vero leader: decisivo in finale, impassibile dinanzi alle critiche piovutegli addosso alla vigilia, romantico nel baciare la splendida fidanzata Sara Carbonero in diretta nazionale pochi istanti dopo il vittorioso epilogo. A rendere impermeabile la retroguardia spagnola ha contribuito in maniera decisiva la coppia blaugrana composta da Piqué e Puyol: tanto affiatati quanto insuperabili, ed il riccioluto capitano del Barça si è pure regalato il gol decisivo contro la Germania. Sergio Ramos, puledro perennemente al galoppo sulla corsia destra, ha svolto in maniera impeccabile ambedue le fasi: sempre pronto al cross, mai in ritardo in chiusura. Ideale complemento del reparto arretrato è stato Capdevila, terzino sinistro poco avvezzo alle sbavature, cui solo il fenomenale Robben ha creato qualche grattacapo. Dirigendosi a centrocampo, è obbligatorio partire da Sergi Busquets, a detta di Del Bosque fondamentale per gli equilibri della squadra: autore di un discreto Mondiale in appoggio a Xabi Alonso, anch'egli superbo ma autore del comunque ininfluente errore dal dischetto contro il Paraguay. Spesso e malvolentieri nelle vesti di trequartista, Xavi non si è certo risparmiato, offrendo prelibati assist ai compagni: Villa su tutti, autore di cinque gol uno più decisivo dell'altro. Iniesta, el hombre de la historia, è la ciliegina su una torta già di per sé ghiottissima. Tra quelli che il campo l'hanno visto meno, spiccano gli altisonanti nomi di Fernando Torres (mai in condizione, causa infortunio) e Cesc Fàbregas, oltre a David Silva. Poi c'è chi, come Pedro e Jesús Navas, si è guadagnato fiducia e minuti in campo giorno dopo giorno, lavorando sodo nel ritiro di Potchefstroom. A Martínez, Arbeloa, Mata e Llorente non sono stati concessi che pochi minuti di campo, utili per dar loro l'idea di cosa significhi vincere un Mondiale, mentre non hanno mai calcato il terreno di gioco Reina e Valdés - prevedibile - ed Albiol, frenato da un infortunio. Per Marchena otto minuti appena, sapientemente suddivisi in tre partite: la sua striscia d'imbattibilità con la Roja è sempre più lunga.

Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000