lunedì 23 agosto 2010

La leggenda del Meazza



Nasce cent'anni fa Giuseppe Meazza, il 23 agosto 1910. I primi calci li dà ad un palla di stracci, inseguita nel natio quartiere di Porta Vittoria sognando un futuro migliore: morto in guerra il padre, litografo caduto sul Carso, tocca a sua mamma Ersilia tirarlo su con quel po' che riesce a guadagnare facendo la verduraia. Peppino - così lo chiaman tutti - ha il pallone sempre in testa, nel vero senso della parola: frequenta il Trotter, e torna da scuola palleggiando contro il muro per anche duecento metri filati utilizzando unicamente il capo.
Con gli amici mette su una prima squadretta, la Costanza, con sede in via Arconati. Entra poi a far parte dei Maestri Campionesi, ed a 12 anni compiuti, previo consenso della signora Ersilia, inizia finalmente a giocare sui campi regolari con i ragazzi uliciani del Gloria F.C. È qui che un ammiratore, ammaliato dalle sue doti di centromediano, gli regala le tanto agognate scarpette da calcio, ed è sempre qui che Fulvio Bernardini lo nota: uno così bravo, il «dottore» (per via di una laurea in scienze economiche conseguita alla Bocconi) pensa di doverlo presentare all'allenatore della prima squadra, Arpad Weisz. Detto, fatto: Meazza, a 14 anni, entra a far parte delle giovanili nerazzurre.

È NATA UNA STELLA
La vita del Peppino, grama sino a pochi istanti prima, tingendosi di nerazzurro cambia completamente: in campo si ritrova a fare il centrattacco, perché è lì che l'Inter ha bisogno, quindi lascia la fabbrica di cinture dello zio per dedicarsi anima e corpo al pallone, incoraggiato dai sciuri che compongono l'organigramma societario, i quali mai negano una bistecca a quel mucchietto d'ossa dai piedi prodigiosi. Assaggia la prima squadra appena diciassettenne, a Como, segnando tre dei sei gol (a uno) con cui l'Inter schianta l'U.S. Milanese in Coppa Volta. Prima dell'incontro, quando Weisz informa i suoi che Meazza sarà il centravanti, Poldo Conti esclama sarcastico: «Oh, bene, adesso facciamo giocare i balilla!», alludendo alla neonata Opera Nazionale Balilla, che raccoglieva tutti i bambini tra gli 8 ed i 14 anni. La strabiliante prestazione di Meazza, cui quel soprannome resterà incollato a vita, non lascia dubbi: è nata una stella.

ESORDI REGALI
Questo imberbe prodigio del fòlber già incanta l'Arena a suon di dribbling e colpi di tacco. L'esordio in campionato, il 25 settembre 1927, viene anch'esso bagnato da un gol: Peppìn mette la firma nel 6-1 contro La Dominante Genova. Quella di segnare all'esordio, per Meazza, è una piacevole consuetudine che accomuna gli esordi in campionato e prima squadra ai derby - meneghini e d'Italia, come li definirà Brera anni più tardi -, recanti il nome del «Balilla» nel tabellino dei marcatori: in gol al Milan nella prima stracittadina giovanile, stessa solfa (il 30 aprile '28) alla prima volta tra i grandi, ed un gol come regalo d'onomastico il 19 marzo del 1930 al debutto contro la Juventus di Combi, Rosetta e Caligaris. Quest'Inter-Juventus viene consentito dall'unificazione del campionato, avvenuta nel 1929 per volere del presidente della FIGC Arpinati. Ed il primo scudetto del girone unico lo vince proprio l'Inter, trascinata dai 31 gol in 33 partite di un Meazza neppure ventenne ma già decisivo: delle trentatré marcature, le più importanti sono quelle che consentono all'Inter - anzi, all'Ambrosiana: al regime fascista il nome Internazionale pare troppo esotico - di agguantare il pareggio contro il Genoa in una partita cruciale per l'assegnazione del titolo. Alla terzultima di campionato, i rossoblu sono di scena in via Goldoni per la partita che deciderà il destino del campionato: all'Inter basta un pareggio, ma dopo 45' il Genoa conduce 3-1. Lì si scatena il finimondo, con le tribune che cedono e 180 feriti portata via in fretta e furia per consentire la ripresa dell'incontro, cconclusosi sul 3-3 grazie ad una tripletta di Meazza. Ma non è certo questo l'unico exploit stagionale del fenomeno di Porta Vittoria: contro la Roma, capitanata dal suo scopritore Bernardini, segna tre gol nei primi quattro minuti spianando la strada ai suoi verso il 6-0 finale.

AZZURRO FULGIDO
Simili prestazioni non passano di certo inosservate, tanto che il selezionatore della Nazionale, Vittorio Pozzo, lo veste d'azzurro per la prima volta il 9 febbraio di quell'anno contro la Svizzera. Si tratta di una semplice amichevole, ma il pubblico partenopeo giunto a Roma per assistere all'evento storce il naso a causa della presenza in campo di quel ragazzino: invocano il loro beniamino Attila Sallustro, ricoprendo di fischi Meazza, e mamma Ersilia scoppia in lacrime. A consolarla ci pensa il suo bambino, che segna una doppietta - si tratta di un esordio, no? - e regala il successo all'Italia. Poco tempo più tardi, sempre con indosso la maglia della Nazionale, si presenta a Budapest e rifila tre gol all'Ungheria, annichilita 5-0 nonostante si tratti di una delle maggiori potenze calcistiche del tempo. Il «Balilla», che segna caterve di gol con l'Inter, quando è agli ordini di Pozzo dà sempre motivo allo spettatore di stropicciarsi gli occhi: contro l'Austria, ad esempio, s'inventa uno stop di suola che porta due difensori allo scontro e gli spiana la strada verso il gol. In Inghilterra, al cospetto dell'ingombrante superbia di coloro che si professano maestri del football, sfodera quella che a detta dei testimoni è la sua miglior partita: sotto 3-0 dopo 15' ed in inferiorità numerica a causa dell'infortunio di Monti, l'Italia rischia un tracollo che Meazza evita segnando due gol e sfiorando ripetutamente il terzo in quella che verrà ricordata come «La Battaglia di Highbury».

DALLA FAME ALLA FAMA
La fame e le scarpe bucate sono ormai un pallido ricordo per il Peppino, che adesso è il re di Milano: guida la sua Lancia Lambda, abita in un lussuoso appartamento in piazza Cairoli, e tra una pubblicità ed una delle sessanta sigarette giornaliere si fa lustrar le scarpe per apparire ancor più bello agli occhi delle sue ammiratrici, con cui condivide il letto ogni notte senza che la classifica cannonieri ne risenta. Emblematico, in proposito, un episodio legato ad Inter-Juventus del novembre 1937. Meazza rischia di non giocare perché... disperso: scovato da un massaggiatore mentre dorme profondamente in un casino alle due del pomeriggio, esausto dopo una notte di fuoco, viene caricato in fretta e furia sull'automobile e portato all'Arena, dove segna una doppietta decisiva per l'esito della partita (terminata 2-1) e dello scudetto, vinto dall'Inter con due punti di vantaggio proprio sulla Juventus.
La carriera di Meazza va a gonfie vele, ma tutt'a un tratto gli si «gela» il piede sinistro: la vasocontrizione di un'arteria non permette il regolare afflusso di sangue all'arto. I medici cercano di restituirlo al mondo del pallone con terapie innovative, ma dopo che il Peppino si è perso interamente la stagione 1939-40 (culminata con il successo dell'Inter in campionato) la decisione di operarsi viene spontanea: lui ha bisogno del calcio, ed il calcio ha bisogno di lui. Non l'Inter, però, che lo cede gratuitamente ai cugini rossoneri sul finire del novembre 1940.

IO, VAGABONDO...
Con la maglia del Milano, denominazione assunta dal Milan sotto la dittatura fascista, Meazza è costretto a giocare da interno. Questa sgradita posizione non gli impedisce di segnare un gol contro la sua tanto amata Inter all'Arena di via Goldoni, per tanti anni teatro delle sue imprese, abbandonata con le lacrime agli occhi nel momento del passaggio al Milan. C'è poi la Juventus, con cui firma il contratto sdraiato sull'erba del Comunale durante un allenamento con già indosso la tenuta bianconera, ma a Torino resta solo un anno: veste le maglie di Varese e Atalanta in tempo di guerra, poi torna all'Inter perché c'è bisogno di lui. La situazione è delicatissima, i nerazzurri rischiano di retrocedere in B: Meazza non può permetterlo, e così nella doppia veste di allenatore-giocatore scende in campo, e segna contro il Bari un gol decisivo. Non si tratta né dei celeberrimi gol «a invito» né di una qualche altra prodezza, ma è l'atto estremo d'amore nei confronti dell'Inter, e durante i festeggiamenti al Peppino tornano in mente i tempi in cui lo chiamavano «Balilla» e per le strade di Milano si parafrasava Leopardi cantando: «La donzelletta vien dalla campagna / leggendo la Gazzetta dello Sport / e come ogni ragazza lei va pazza per Meazza / che fa reti a tempo di fox-trot».



SAN SIRO, LA CASA DI PEPPINO
Morto a Rapallo il 21 agosto del '79, due giorni prima del suo settantesimo compleanno, Meazza riposa al Famedio del Cimitero Monumentale di Milano assieme ad illustri personaggi della storia meneghina quali Manzoni ed il più calcistico Candido Cannavò. Fermato dal più rude dei terzini, un tumore al pancreas, alla sua memoria viene intotolato San Siro, divenuto «Giuseppe Meazza» il 2 marzo 1980. Curiosamente, il Peppino non aveva praticamente mai giocato nello stadio edificato a partite dal dicembre 1925 dall'allora presidente milanista Piero Pirelli ed inaugurato da una stracittadina, conclusasi sul punteggio di 6-3 per l'Inter: qualche derby appena, e gli incontri casalinghi nel biennio rossonero, perché la casa di Meazza era l'Arena Civica di via Goldoni. E quando l'Inter si traferì a San Siro, nel 1947, il signore del fòlber milanese aveva appena appeso gli scarpini al chiodo.



L'UOMO DEI RECORD AZZURRI
Per la causa azzurra, cui contribuì segnando 33 gol (un record, rimasto imbattuto per oltre trentacinque anni) in 53 partite, Meazza non si tirò mai indietro. Formidabile centravanti, per la Nazionale il Peppino si sacrificò due volte, giocando da interno entrambi i Mondiali vinti per lasciar spazio a Schiavio prima e Piola poi nel tanto amato ruolo di centrattacco. Relativo al primo successo iridato un aneddoto concernente la passione per il gioco d'azzardo del campione milanese, capace di perdere la bellezza di 25 mila lire giocando a poker nel ritiro di Roveta, salvo poi rifarsi con il premio per la vittoria dei Mondiali, equivalente proprio a 25 mila lire. Al Campionato del Mondo di Francia, disputato nel 1938, è invece legato uno degli episodi che meglio spiegano la tempra di Meazza. Nella semifinale contro lo spocchioso Brasile (che aveva già prenotato i biglietti aerei per Parigi, dove si sarebbe disputata la finale) calciò il penalty decisivo reggendosi i calzoni con la mano sinistra e beffando il pararigori Walter: poteva mai un ragazzo divenuto orfano di padre ad appena sette anni ed in grado di superare la fame e la povertà farsi fermare un elastico rotto? No di certo, ed il secondo titolo mondiale era il giusto premio. Meno dolce l'addio alla Nazionale, causato dal «piede gelato» che non consentirà più a Meazza di vestire l'azzurro: recandosi ad Helsinki per un'amichevole con la Finlandia nel luglio del 1939, giurò di aver udito le cannonate della guerra, appena incominciata, mentre in treno costeggiava Danzica.



L'EREDE
Una volta dato l'addio al calcio giocato, Meazza cercò vanamente fortuna come allenatore: prima il Beşiktaş, in Turchia, poi la Pro Patria, quindi un biennio in Nazionale al fianco di Carlino Beretta. La guida tecnica, però, non faceva per il Peppino, che ben presto scelse di dedicarsi ai giovani per conto dell'Inter. A lui il merito di aver scoperto Sandro Mazzola, cui lo accomunavano la perdita del padre in giovanissima età ed una classe fuori dal comune. Il figlio del grande Valentino lo ricorda così: «Era una persona eccezionale, per cui la correttezza veniva prima di tutto. Una volta, mi lamentai perché non mi veniva passata la palla, e lui mi rimproverò dicendo che, nonostante avesse vinto due volte il Campionato del Mondo, mai si era permesso di crtiticare l'operato dei propri compagni di squadra. Quella fu, per me, un'importantissima lezione».

Antonio Giusto

Fonte: Calcio 2000

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